L’eredità di Asia [4]


di Raffaele Laurenzi


Capitolo VIII

A te papà lascio un ciuffo di peli. È semplice: quando capisci che è il momento, lo tagli in silenzio, lo metti in un Kleenex e te lo infili in tasca. Una volta a casa, lo chiudi in un cassetto e amen: sai che la «tua Asia» è lì, è la prova che sono esistita e che ho fatto parte della tua vita.

Ho detto «tua Asia» perché tu, quando parlavi di me, ti esprimevi proprio così: «la mia Asia». Quell’aggettivo possessivo poteva sembrare pleonastico, invece aveva un significato profondo: indicava un rapporto speciale, il legame stretto che avevo con te e con la nostra famiglia.

Ti lascio anche una montagna di fotografie, tra cui la copertina della rivista in cui venni ritratta quando ero giovane e bella. Partecipai con entusiasmo a quel servizio fotografico: la modella continuava a offrirmi croccantini per farmi saltare su e giù dal bagagliaio di una station wagon e io ci guadagnai un pasto straordinario. Alla fine del lavoro, il fotografo ci mise al centro del set, io te e la mamma, e scattò una foto ricordo di quell’evento che rimane in assoluto la più bella del nostro ricco album.

La mamma mise in cornice la foto, che è ancora lì, su un ripiano della libreria nella nostra casa di Milano. Mi raccomando, non spostarla, non sostituirla, non metterla assieme a quelle degli altri cani che mi hanno preceduta e che verranno dopo di me: credo di essermi guadagnata un posto speciale nel cuore tuo e della mamma e di meritare perciò un posto speciale anche nella nostra casa: piccolo ma tutto mio. Ogni volta che poserai gli occhi su quella foto, sarai costretto a rivolgermi un pensiero. Perché adesso la mia più grande ambizione è solo quella di continuare a vivere nei ricordi di chi mi ha voluto bene.

A te e alla mamma lascio un’altra eredità: un vuoto ingombrante. Non occorre un notaio per assegnarla, farete metà per uno e vi basterà. Non dovrete neppure dichiararla nella vostra denuncia dei redditi, dal momento che il vuoto, per il momento, è esentasse. All’inizio sarà immenso, ma si ridurrà col tempo, e questo è un bene. Ma non si colmerà mai del tutto: il dolore si decanterà, l’amarezza diventerà dolcezza e nei vostri dialoghi il mio ricordo sarà accompagnato da un sorriso.

In questa difficile ultima fase della mia vita, io mi nutro di questa consapevolezza: mi consola immensamente sapere che vi mancherò. Devo ammetterlo, a costo di smentirmi, non mi dispiace poi così tanto di darvi un dolore. Voglio anzi che il dolore, almeno all’inizio, sia grande, intenso, corrosivo: pari al bene che vi ho voluto. Col tempo passerà.

E tu papà alla fine potrai considerare i vantaggi della mia uscita di scena. Io e Sofia avevamo velocità differenti, lo dicevi anche tu. Ciò che potevi fare con lei, non potevi farlo con me. E viceversa. E di noi due, è giusto che sia io a cedere il passo. Perciò tolgo volentieri il disturbo.

Tu avevi previsto tutto: avevi previsto che, arrivata a dieci anni, non mi sarebbe restato molto da vivere. Hai immaginato che la presenza di una giovanissima Sofia avrebbe reso più lieve la perdita di un’Asia vecchia e inutile. Ma non hai fatto bene i conti. Non potrai sostituirmi tanto facilmente, non potrà Sofia riempire lo spazio che occupavo io. Stavolta non mollo come feci col divano e con i peluche: ti piaccia o no, continuerò a difendere il mio territorio. Ostinatamente.

A ripensarci, sei stato davvero ingenuo: forse il tuo Bred ti ha consolato della tragica perdita di Lucky? Oliver ha alleviato il dolore per la sofferta fine di Bred? E io ho forse scalzato Oliver dai tuoi ricordi?

Ogni cane è geloso dei suoi territori, soprattutto quelli del cuore dei padroni, e ti assicuro che nella vita e nei ricordi di un uomo c’è posto per dieci, cento cani, ognuno ordinatamente archiviato nella sua casella. Ma la mia casella, ti avverto, sarà più ingombrante del previsto. Perciò non fare il furbo, e non ti vergognare di versare una lacrima. Credo che la mia missione si compirà proprio allora, quando piangerai per me, perché ti farà bene. Versare lacrime è un esercizio molto indicato per chi ha bisogno di tenere in allenamento i sentimenti, che a una certa età rischiano di inaridirsi. Dopo ti sentirai meglio e credo che ne beneficerà anche chi ti sta vicino.

Ma mio nipote Gabriele no, vorrei che lui non soffrisse. Che fretta c’era di farlo precipitare nel vuoto che lascia la perdita di un affetto? Invece proverà questo dolore, il primo della sua vita, proprio a causa mia, e questo mi dispiace tanto. Perciò cercate di renderglielo più lieve, non parlategli di morte, dategli spiegazioni poetiche, non «tecniche», della mia fine. La sera, quando uscirete con Sofia e lui verrà con voi, indicategli Venere, la stella più luminosa del firmamento e ditegli che sono io, che da lassù lo osservo e lo proteggo, come quando andavamo ai giardini e io tenevo a bada certi cani troppo esuberanti che non mi piacevano e che temevo lo facessero cadere.

Me ne hai fatte di tutti i colori, Gabriele mio, ma è ciò che desideravo per appagare il mio istinto materno. Ti aggrappavi al mio mantello quando muovevi i primi passi, mi abbracciavi stretta e ti distendevi sopra di me per dare più intensità al contatto fisico come facevi con tua madre. Te ne sono grata. Perciò anche a te lascio qualcosa: il mio nome. Quando sarai grande e avrai il tuo cane, se sarà femmina, la chiamerai Asia. D’accordo?

A te Valeria, che sei la mia sorella maggiore, lascio un incarico di grande responsabilità. Come tutti noi abbiamo pensato, papà non ha fatto bene i conti con l’anagrafe quando ha portato a casa la cucciola Sofia… Intendo dire: se alla mamma fosse necessario un aiuto per gestire quella pazzerella di Sofia, vorrei che ci pensassi tu. Non sarà facile, perché in casa hai già due gatti, e Sofia sai com’è fatta: se vede un gatto, lo vuole rincorrere e non si sa poi come va a finire. Però sono sicura che ce la farai.

Per colpa di Sofia, neppure io sono più salita a casa tua. Invece, prima del suo arrivo, venivo spesso a trovarti. Mi piaceva rotolarmi sul tuo tappeto in soggiorno e mi divertiva vedere i tuoi gattini che si avvicinavano a me in punta di zampa, spinti dalla curiosità, per capire com’ero fatta. Sono due care bestiole e ho affetto anche per loro, perché ho visto con quanta pazienza sopportano anche loro i dispettucci di Gabriele. Perciò, quando torni a casa dopo il lavoro, fagli una carezza da parte mia.

Stasera va peggio che mai. Non ho appetito, mi gira la testa, non riesco a tirarmi su. Eppure la mia testa lavora, non riesco a non pensare. Le immagini del passato mi scorrono davanti agli occhi come un album di fotografie. Forse è normale che sia così la notte prima degli esami, è l’effetto della tensione nervosa.

Ecco, papà ha finito di cenare e viene da me; si abbassa, mi accarezza e mi sussurra parole nell’orecchio. Gli concedo un cenno di gradimento con la coda, di più non posso.

«Coraggio,» mi dice «domani mattina andiamo dal veterinario, facciamo gli esami, poi con un piccolo intervento ti rimettiamo a posto. La spiaggia ti aspetta». Piccolo intervento? Povero papà, continua a non capire niente. E la mamma lo lascia nella sua illusione, almeno così è sereno.

Grande mamma, si fa carico di tutto, anche delle decisioni estreme che papà non saprebbe prendere. Lei è forte, ma è da una settimana che tira la corda e papà non si è accorto della sua segreta tristezza.

A te mamma, e solo a te, lascio il mio sguardo. Nei miei occhi tu sapevi cogliere tanti significati e li sapevi interpretare sempre nel modo corretto. Il mio ultimo sguardo sarà per te, per portare con me la tua immagine e per dirti grazie.

A voi, a tutti i miei nipotini, lascio un insegnamento: il rispetto per gli animali. Devo dire che mi è costato: quanti bei riposini e quanti ciuffi del mio ricco mantello biondo ho sacrificato per voi, ma ne è valsa la pena. Non mi avete fatto pesare la vecchiaia, non vi siete accorti che mentre voi crescevate e diventavate più forti, per me gli anni passavano con una velocità maggiore. Ma io ero contenta lo stesso: voleva dire che ero da voi considerata una coetanea e non una severa istitutrice di famiglia: mi facevate sentire giovane.
A te, Sofia, lascio finalmente campo libero. Papà e mamma saranno tutti tuoi, come saranno tutti tuoi il divano, il letto matrimoniale e il vasetto di ricotta che fino a ieri abbiamo condiviso quando sedevamo a tavola con i nostri genitori.

Ma so di farti regali che non desideri, perché tu in realtà sei generosa, hai sempre condiviso con me cose e affetti (semmai ero io poco incline a condividere…) e credo che mi cercherai, anche se i miei genitori, per non ingannarti, cancelleranno pietosamente ogni mia traccia. Ti lascio i nipoti, ormai sei grande e non giochi più ad abbatterli come birilli. Ti ho osservata, con i bambini ci sai fare. Anzi, devo riconoscere che sei più paziente di me: quando non ne potevo più, io mi ritiravo in camera da letto o andavo a nascondermi tra le gambe di papà. Tu invece resisti pomeriggi interi ai dispettucci dei bambini, li rincorri, gli rubi i giochi, ti fai rincorrere. Anzi, a volte ci metti perfino troppa partecipazione: ho visto decine di soldatini e macchinine stritolati sotto i tuoi denti.

Ti lascio i guinzagli. Sono come nuovi, perché io non tiravo, non li mordevo e spesso non ne avevo neppure bisogno. In quanto ai miei peluche, lascio decidere alla mamma: io li ho conservati tutti con grande cura, anche quelli di quando ero cucciola; tu invece ne distruggi mediamente uno alla settimana. Vuol dire che presto sarà libero il ripiano della libreria dove io li ho lasciati, puliti e bene allineati. La mamma ne sarà contenta.

Cara Sofia, hai ormai due anni, è ora che tu metta la testa a posto e ti assuma le tue responsabilità. Perciò sbrigati a crescere, perché ho un bene importante da affidarti e me ne vado serena soltanto se so che di te posso fidarmi. Sto parlando dei nostri genitori: ti sei resa conto che stanno diventando vecchi? Dovrai prenderti cura di loro, come ho sempre fatto io. La prima raccomandazione è semplice: sii brava al guinzaglio, non tirare, non strattonare, non procedere a zigzag, non avvolgere il guinzaglio attorno alle gambe di papà. E se vuoi evitare guai, non scattare come una molla mentre papà sta raccogliendo la tua pupù… Da cucciola sei riuscita a far cadere la mamma due volte. Perciò, adesso che pesi trenta chili e sei un fascio di muscoli, bisogna che ti dai una regolata. Se papà o mamma si fanno male, sono guai anche per te: dopo chi ti porta a giocare?
Ci sarebbe poi un’altra faccenda, un tantino delicata. Vorrei avere più tempo a disposizione per parlartene, ma temo che non sia possibile. Perciò vado subito al sodo: è arrivato per me il momento di fare un bilancio della mia vita. Tirate le somme, e fatte le sottrazioni, lo chiudo in attivo e questa è una consolazione. Tuttavia non riesco a liberarmi di una piccola amarezza, quella di aver deluso mio padre. Sì l’ho deluso, non gli ho saputo dare ciò che si aspettava da una Golden Retriever.

Papà voleva un cane che lo seguisse ovunque, un compagno di giochi instancabile che gli contendesse la corda, che facesse la lotta sul lettone e poi lo abbracciasse. Voleva un cane che si lanciasse in acqua saltando le onde come un cavallino, che camminasse accanto a lui guardandolo negli occhi, in attesa di un comando, un premio o una carezza, felice di ubbidirgli. Voleva una femmina che lo cercasse, che gli si accucciasse vicino mentre lavora, gli saltasse in braccio e lo sleccasse per fargli le feste.

Io non c’ero portata. Per un po’ l’ho seguito da cucciola, poi ho avuto il guaio alla spalla che mi ha costretta al riposo per mesi e quando il veterinario ha detto che lo sviluppo era completo e potevo fare quello che volevo, avevo cambiato carattere, ero impigrita. Per dirla tutta non ero una giocherellona ed ero poco incline alle smancerie. Non dimentichiamo che io sono una Golden di linea inglese, il self control fa parte della mia indole. Se volevo dimostrare contentezza perché papà veniva a farmi le coccole, mi limitavo a due giri della coda, ma solo con la punta e molto lentamente. Quando ero smodatamente felice, per esempio di fronte a una fetta di arrosto, solo allora si poteva notare un lieve aumento della frequenza dei battiti della coda… Il mio stile è sempre stato sobrio, improntato a un rigoroso understatement.

La Golden che piace a papà è diversa. È una tipa che, quando lui tira fuori il frisbee, si mette a saltellare ritta su due zampe: per portarglielo via, per la smania di dare inizio al gioco o semplicemente per manifestare il suo entusiasmo. È una che improvvisamente, senza un motivo apparente, gli si butta tra le braccia mentre è seduto sul divano e gli si struscia addosso senza pudore, una che gli corre incontro scodinzolando come un tergicristallo non appena vede che lui prende in mano il guinzaglio.

Forse ti sei resa conto, cara Sofia, che ho disegnato il tuo identikit. Sei esattamente il cane che fa per lui, che lo riempie di orgoglio quando gli dicono che sei bella e di soddisfazione quando ti vede correre col tuo ricco mantello gonfio di vento. Sì, sei il cane che fa per lui; peccato che lui non faccia per te…

Non fraintendermi, sarete felici insieme, ma devi considerare che il papà che ho appena descritto è quello di quando io ero cucciola. Sono passati 12 anni, non è più lo stesso di allora. Ti sei mai accorta della fatica che fa quando ti prende in braccio per pesarti sulla bilancia? Ti sei mai chiesta perché quando tu sei già salita al secondo piano lui stia ancora scalando la prima rampa? Voglio dire: fai pure quello che ti senti di fare, ma non puoi pretendere che lui mantenga sempre il tuo passo. Insomma, tientelo da conto, è l’unico papà che hai.

 

Capitolo IX

La sera rifiutai la ciotola e non fui in grado di fare le scale per raggiungere la mia cuccia, che era nella camera dei miei genitori, accanto a quella di Sofia. La mamma mi preparò allora una cuccia al pian terreno e si sdraiò accanto a me, su una branda; distese il braccio e mi accarezzò. Come sempre, papà venne a salutarmi e mi sussurrò le solite parole, sentite altre volte durante questi ultimi giorni, tipo: «Domani sistemiamo tutto, devi avere pazienza, fra tre giorni ti riportiamo in spiaggia, anche se sei incerottata», che ormai suonavano tragicamente comiche; volevo solo dormire e infatti presi subito sonno. Più che un sonno, il mio fu un viaggio nell’ignoto. Sognai la skyline di una catena montuosa, un susseguirsi di picchi, simili a quelli che disegnano i bambini quando vogliono rappresentare un panorama alpino. La scena era illuminata debolmente da un astro non identificato, troppo grande e luminoso per essere la luna e troppo scuro e piccolo per essere il sole. Lungo la skyline si stagliavano sul cielo grigio metallizzato alcune sagome che arrancavano in fila indiana sulle pendici di quei monti disegnati a matita e, giunte sulle cime aguzze, ruzzolavano giù dall’altra parte, fino a fondo valle, e subito dopo riprendevano a salire. In quelle sagome riconobbi me stessa, papà, mamma e Sofia. Non so da dove venivamo né dove eravamo diretti. So che eravamo stanchi e affannati e ci saremmo fermati volentieri, ma non era possibile. Soltanto il mio risveglio interruppe quella fatica. La mattina, passetto passetto, uscii per fare pipì. Mi allontanai pochi metri dal cancello, mi abbassai su un ciuffo d’erba e tornai a casa. Qualche minuto più tardi vidi arrivare papà con la sua automobile. Si fermò davanti casa, scambiò alcune parole con la mamma, poi mi prese in braccio e mi infilò a bordo, sul sedile posteriore. La mamma si sedette dietro, accanto a me, e mi prese la testa fra le mani. Al di là del cancello, Sofia infilò il muso tra le sbarre e rimase a guardare l’automobile che si allontanava. Immagino che per un po’ si fosse lamentata col suo pianto infantile, perché faceva sempre così quando veniva abbandonata. Sofia non l’ho mai capita completamente: piagnucolava se veniva lasciata sola, ma era tutta contenta, quando si presentava l’occasione, di allontanarsi e di fare tutti i suoi comodi.

Mi permetto di giudicarla perché credo che la mia esperienza me lo consenta. E dato che ho una certa età, lo faccio con la benevolenza della sorella maggiore che si preoccupa per lei. La sua curiosità la rende inaffidabile e la espone a pericoli di cui neppure si rende conto. Come quando, settimane fa, approfittò del cancello aperto… La mamma stava potando il gelsomino e non badò a lei. Sapeva che Sofia stava dormendo sotto il portico, perciò era tranquilla; e poi la mamma era lì, davanti al cancello, e poteva facilmente tenere sotto controllo il vialetto di fronte.

Il guaio è che Sofia è anche astuta come una volpe e si muove col passo felpato di un gatto. Riuscì a passare, non vista, alle spalle della mamma, scivolò via lungo il vialetto e scomparve dietro l’angolo. Mezz’ora più tardi, forse un’ora, la sentimmo abbaiare. Sofia lo faveva spesso a tutti quelli che passavano davanti a casa. Perciò papà alzò la voce e le gridò di smetterla. Macché, lei riprese ad abbaiare e papà fu costretto ad affacciarsi. Guardò giù e disse alla mamma: «C’è Sofia davanti al cancello!». E lei: «Vorrà uscire…» E papà: «È già uscita, adesso vuole entrare, Sofia è al di là del cancello!» Che cosa avesse fatto durante tutto quel tempo è rimasto un mistero.

Lo studio veterinario era a mezz’ora di strada. Durante il viaggio la mamma continuò ad accarezzarmi e io mi abbandonai completamente nelle sue mani. Non pensavo più a niente, non desideravo niente, non reagivo a ciò che accadeva attorno a me: non potevo, non ne avevo più voglia. Non dissi niente neppure quando il veterinario, poveretto, mi prelevò il sangue chinandosi sul pavimento per evitarmi il trauma del tavolo da visita.

Nello studio c’erano molti cani, il viavai era continuo. Un bracco italiano era stato sistemato in una stanzetta di passaggio, respirava a fatica, il padrone armeggiava con la flebo che scendeva dall’ampolla e s’infilava in una delle zampe posteriori. Quel cane mi faceva pena, i gomiti erano piagati, le ossa sporgevano dal mantello bianco e arancio tanto che si potevano contare le costole; la muscolatura atrofizzata e le unghie esageratamente lunghe indicavano che da tempo l’attività fisica era ridotta al minimo. Era un corpo inerte che conservava poche tracce della sua antica e vigorosa bellezza. Durante la breve attesa perché fosse preparato l’apparecchio per l’ecografia, rimasi vicino al bracco e ne ebbi pietà. Se fossi stata bene, mi sarei distesa vicino a lui, come anni prima avevo fatto con il leprotto ferito, per rendergli più lieve il breve tratto di strada che gli restava da fare.

Il veterinario ci invitò a entrare e i miei genitori furono pronti a condurmi nella stanzetta di radiologia, perciò dovetti abbandonare quelle mie tristi riflessioni e conclusi in fretta che ero stata fortunata: se quelli erano i miei ultimi minuti, me ne sarei andata ancora nel pieno della mia bellezza, avvolta nel mio luminoso mantello biondo, e quella sarebbe stata l’ultima immagine che avrei lasciato ai miei genitori. Questa considerazione mi rese tranquilla e io stessa mi meravigliai della mia serenità. Mi tornò in mente un vecchio motivetto che canticchiava mio padre: «Son contento di morire ma mi dispiace; mi dispiace di morire ma son contento…».
Uno dei veterinari dello studio entrò in quel momento con l’esito dell’analisi del sangue. Disse che le piastrine erano precipitate, che probabilmente era in corso un’altra emorragia. L’ecografia confermò l’ipotesi del veterinario, il quale arrivò subito alla conclusione che tutti sapevano all’infuori di mio padre: «Non ci sono le condizioni per un intervento chirurgico».

La mamma fece una domanda precisa: «Quanto le resta?» «Poco, molto poco; qualche giorno.» Papà rimase in silenzio, era stordito. Dentro di me pensavo: «Coraggio mamma, digli quello che devi dire, non vorrai mica lasciarmi così? Coraggio mamma, diglielo, non lasciarmi soffrire.»

Povera mamma, non riusciva a parlare, balbettò qualcosa, poi le uscirono poche parole impastate di dolore e di lacrime che suonarono come un’implorazione: «Dottore, faccia quello che si deve fare in questi casi, mi assicuri soltanto che Asia non soffrirà. Non voglio che soffra.» E sollecitò subito la risposta: «Me lo assicura, dottore?». Lo disse con la voce ferma di chi esigeva una conferma, senza incertezze.

«No, non soffrirà.» disse il dottore a voce bassa, scandendo bene le sillabe. E aggiunse: «Sarà sotto anestesia.» Allineò sul tavolo le fiale e il laccio elastico; prese poi il rasoio elettrico e lo passò sulla mia zampa posteriore sinistra. Raccolse un abbondante ciuffo di peli e lo appoggiò in un angolo del tavolo. Papà, che era sempre rimasto in silenzio, prese il ciuffo, lo avvolse in un fazzoletto e se lo mise in tasca. Poi appoggiò le mani sulla mia nuca e mi accarezzò dolcemente come piaceva a me. Allungai una zampa verso la mamma, che mi stava di fronte. Lei la prese e la tenne stretta fra le sue mani; cercò di trattenere le lacrime perché non voleva che io la vedessi piangere, ma il tentativo fallì.

«Ci siamo», pensai, e durante quel minuto che mi restava mi abbandonai a un sogno. Vidi i miei genitori che correvano su un prato di trifogli assolato, in leggera discesa. Io correvo tra loro due, li superavo, saltavo leggera fossi e siepi con l’agilità di quando ero giovane. In fondo alla valle c’era un bosco, mi ci infilai dentro, e più procedevo più il bosco diventava fitto e scuro. Finché la luce non si spense del tutto.

 

 

Raffaele, Asia e Rita.
Per sempre.

 

Gamy Moore
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