Lo specchio di Beatrice (n. 6 – Home sweet home)

Riassunto delle puntate precedenti

Nel secolo in cui è caduta all’indietro, Beatrice ha molto da fare. Ha i programmi scolastici da ripassare e il corso di difesa personale del sabato pomeriggio con la poliziotta Costanza, che la protegge e la incoraggia. Quel fanatico di suo padre è fissato con la ginnastica medica, a cui la costringe dai tempi delle elementari, però non è un male, perché il giro in centro le permette di fare scorta di libri e fumetti usati nel negozietto che era il suo rifugio ai tempi delle medie e del liceo. Beatrice intanto vuole sapere cosa è successo nel suo tempo, nel 2013, e salta di nascosto una lezione in palestra per andare a vedere la strada dove abitava. 

Casa in centroLa viuzza a due passi dalla piazza, dove abitavo con mio marito e i nostri gatti, è assolutamente uguale a quando ci trasferimmo lì, nel 1985. C’è ancora la tipografia, e le case non sono state trasformate nei cimiteri di mono e bilocali che infesteranno il centro storico nel secolo che deve ancora venire. La facciata del palazzo è quella di sempre, vecchia, scrostata e con le sbarre alle finestre. Quanto ho amato questa casa… È stato il primo e il solo posto che ho potuto chiamare veramente ‘casa’. Dopo quella dei miei, che somigliava a una prigione, in cui dovevo subire gli orari fissi per uscire e rientrare, la faccia da segugio di mia nonna che disapprovava ogni mio movimento, le sfuriate di mio padre, una madre con la mania del controllo, che veniva persino a vedere se era vero che dormivo, dopo le coabitazioni a Bologna con le camere da letto condivise, dopo la stanzetta col cesso in cortile in cui avevo trovato un po’ di privacy ma non potevo nemmeno fare una doccia, quando mi sono trasferita in quella casa mi è sembrato di sognare. E quando poi sono arrivati i gatti, ho scoperto la gioia di avere un posto tutto per me, in cui isolarmi e chiudere il mondo fuori.

 

porta chiusaGuardo i pochi nomi sui campanelli, deve ancora arrivare l’immobiliare che smembrerà i grandi appartamenti per ricavarne loculi da affittare alla “gente di passaggio”. Il portone è spalancato ma allora usava così, ci si chiudeva dentro solo la notte. Provo a entrare nel cortile, dove è ancora aperta l’officina del lattoniere, e riconosco i due appartamenti che noi unimmo per farne uno solo, grande e comodo. In fondo al corridoio del piano terra, prima del cortile interno, c’è una porta con le inferriate, mezza aperta, che dà in uno sgabuzzino all’apparenza non utilizzato. Mi sembra un buon posto per nascondermi. È pieno di vecchi giornali e mobili rotti, e accanto a un piccolo comò con la specchiera, una toletta, come usava un tempo, c’è anche una poltroncina. È così carina che vorrei portarmela via, e per un attimo immagino la faccia di mio padre a vedermi tornare a casa con una poltrona. Meglio che mi ci sieda qui, e che chiuda bene la porta di fuori, per non farmi notare da chi entra o esce dal palazzo.

Anche la specchiera è molto graziosa, ma piena di polvere. Con il fazzoletto da naso – ancora non ci eravamo evoluti alla civiltà e i Kleenex erano al di là da venire – la spolvero e mi osservo le sopracciglia a cui sto cercando di dare una forma, non troppo per non far infuriare mia madre, ma abbastanza per toglier loro l’aspetto da bruco peloso. Proprio mentre sto estirpando un peluzzo con la pinzetta che mi porto sempre dietro, riesco a vedermi nel futuro. E capisco anche il motivo: dove c’era questo sgabuzzino ci avevamo fatto un bagno. Finalmente ho la possibilità di vedere la me stessa del 2013, una signora di cinquantasette anni nemmeno troppo mal portati – in confronto ai quaranta di mia madre in questo anno 1969, sembra una miss – e subito mi metto a picchiettare sullo specchio con le dita. Pare che funzioni, la me stessa anziana si volta, e a quanto pare anche lei mi vede, perché fa la faccia dell’Urlo di Munch, ma ha la prontezza di spirito di chiudere la bocca, e anche la porta.

 

porta nascostaCi guardiamo e appoggiamo le mani allo specchio, l’una in corrispondenza dell’altra. Rimaniamo un po’ così, a fissarci dalle parti opposte della lastra di vetro, poi la me stessa cinquantasettenne esplode in una crisi isterica. Mi assale con le domande e mi racconta freneticamente gli ultimi mesi, nei quali si è svegliata anche lei in un ospedale, ma non in quello del terzo mondo. È stata ricoverata per un periodo abbastanza lungo in una stanza singola con la televisione a colori e il telecomando, dove le dicevano che era caduta dalle scale sul lavoro. Lei non si ricordava niente, nemmeno di lavorare, aveva solo in mente di essere scappata da suo padre – nostro padre – che la voleva rispedire a casa a calci e schiaffoni, e si era risvegliata in quella stanza di lusso, con una grande finestra e un balcone, dove tutti la trattavano con gentilezza, e un uomo anziano, ma ancora bello, le teneva la mano e la coccolava. Aveva chiesto dei suoi genitori, ma quell’uomo – che si chiamava Massimo ed era suo marito – non li aveva avvisati, perché erano molto vecchi e non bisognava preoccuparli. Lei continuava a non avere memoria di nulla oltre i suoi tredici anni. I medici avevano dato la colpa alla caduta, che non era avvenuta nella strada di casa, come ricordava lei, ma dalle scale in quel posto dove lavorava, e sostenevano che un forte trauma può provocare vaste amnesie, in cui si cancellano interi anni. Infatti lei aveva perso quarantaquattro anni di memoria.

Le raccomando di stare calma e di non attirare l’attenzione. Non deve raccontare a nessuno di avermi incontrato, deve tenere anche lei un profilo basso, se no finisce che la ricoverano in Psichiatria, e questa è una cosa che entrambe vogliamo evitare. Non vuole che la lasci, ha tante domande da farmi, ma io devo tornare a casa, ho un autobus da prendere a un orario preciso e anche lei si ricorda bene della mamma seduta sotto all’orologio, che la squadrava dalla testa ai piedi e storcendo la bocca sottile e secca puntualizzava, “hai cinque minuti di ritardo”. E qualunque fosse la risposta l’espressione non cambiava, era sempre quella del “A me non la dai da bere, troietta, ma ricordati che se ti fai mettere incinta poi hai finito di vivere”. In altri tempi quella donna avrebbe lavorato per l’Inquisizione, oppure la sua precedente reincarnazione faceva la guardia carceraria, però dobbiamo trovare assolutamente il modo di tenerci in contatto, la me stessa del 2013 ha ancora la testa dei nostri tredici anni, e non la posso lasciare da sola in un mondo che non conosce. L’unica idea che mi viene in mente sul momento è di portarmi a casa la specchiera e di darci appuntamento per la sera dopo cena nel suo bagno. Se quello era lo specchio che ci teneva in contatto dovevo averlo a casa con me, non avrei trovato facilmente un’altra occasione per ritornare in quel palazzo.

Il ritorno a casa in autobus con la specchiera è stato più semplice di quanto temevo. Nello sgabuzzino c’erano abbastanza fogli di giornale in cui avvolgerla, e una scatola di cartone per portarla. L’autobus era quasi vuoto e incredibilmente l’autista si faceva i cazzi propri, invece di fare lo scemo con le ragazzine. La cosa difficile è stata far entrare la specchiera in casa dei miei: a mia madre non sfugge un giornalino nella borsa da ginnastica, figuriamoci uno specchio da toletta. Finisce che passo attraverso il retro della casa dei miei zii, abbastanza affollata di gente per non fare caso a me, e nascondo l’oggetto in cantina. Ci penserò dopocena a recuperarlo. 

I pasti in famiglia: facce lunghe intorno alla tavola, conti da pagare, i soldi che non bastano, tutto lo squallore domestico tra la nonna che brontola, il padre che impartisce ordini, la madre che dice sempre di sì, con gli occhi bassi e la testa incassata fra le spalle. Beatrice non vede l’ora di scappare di sopra. Stasera in modo particolare: ha un appuntamento con la se stessa del 2013.

Foto di Maicol Cortesi

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