Lo specchio di Beatrice (n. 1 – Arbeit macht frei)

lattina schiacciataSchiacciata come una lattina di birra. Anche oggi la kapò dell’Acquario delle Orche Assassine mi ha squartato e disossato. “Mi hai rotto il cazzo”, “Mi hai rotto i coglioni”… gli attributi maschili trionfano nel suo eloquio forbito, da vera signora; si vede che la nostalgia è tanta. “Sei menomata nei maroni”. Questa è carina, almeno è originale; nei maroni di chi? In quelli che mi sono cresciuti a lavorare qua dentro, o in quelli del mio anziano genitore che si è permesso di farmi nascere? “Tu qui dentro non hai alcun diritto”. Me ne sono accorta da tempo, grazie. “E se lo dico io, tu lavori di notte, di sabato, di domenica, a Natale e a ferragosto”. Yes, madame, e pure nella cassa da morto, non chiedo di meglio.

Mi difendo con l’unica arma che ho: la lascio urlare in mezzo al corridoio, coi suoi centotrenta chili pericolosamente in bilico sul tacco dodici, rinforzato in titanio per sostenere i tronchi di vene varicose inguainati nelle calze contenitive. La gelatina della pappagorgia trema come tremavo io i primi anni in questa galera, quando non ero abituata alle “aggressioni verbali” e rimanevo traumatizzata come un povero gatto, di notte, davanti ai fari delle auto che lo ridurranno a piadina. Il collo le diventa rosso bordò e io continuo a coltivare la struggente speranza che le parta l’embolo, mentre faccio l’unica cosa che è in mio potere, e che la fa incazzare come una biscia. Mi chiudo in bagno.

Devo essere veloce, se no mi si mette davanti alla porta e non mi concede il ritiro finché non ha sfogato tutti i suoi anni di orgasmi mancati, e vi giuro che sono tanti. Ma io peso un terzo di un’orca urlante e porto le scarpe basse, così riesco a girare la chiave a doppia mandata prima che lei abbia la possibilità di bloccare la mia fuga. E adesso si tratta di aspettare con pazienza. Anche lei sta invecchiando e non regge più di due minuti a prendere a calci la porta, che grazie al cielo è abbastanza robusta per non farmi fare la fine del topo, visto che il bagno è senza finestre. Mai che uno dei suoi tacchi di merda si incastri nel legno e la faccia finire a gambe all’aria, con conseguente rottura del bacino e della clavicola? No, queste cose nella mia vita non succedono.

Si allontana e la sento urlare al telefono con la segretaria del Gran Mogol, dal quale mi spedirà per l’ennesima seduta di minacce. Il nostro mega dirigente, grasso e pelato come un Buddha, uguale spiccicato a Lord Varys del Gioco dei Troni, ma ancora più viscido e malvagio. Lui è di un’altra tempra, ha sangue di serpente, non alza la voce, non urla, non bestemmia, non si mette mai dalla parte del torto. Ti guata con i suoi occhi porcini e ti sibila all’orecchio l’infinita gamma delle punizioni che può comminarti dall’alto del suo sommo potere. E non si dimentica mai di niente, ha una memoria che in confronto un elefante è la Smemorata di Collegno; quello si ricorda tutto dall’alba dei tempi, compreso il fatto che non gliel’ho data quando ero giovane. E ne pago ancora le conseguenze.

Godiamoci l’attimo. In tutto questo immenso e tetro palazzaccio di pietra che gronda sangue pure dalle inferriate, il bagno è l’unico posto in cui riesco a respirare. Proprio perché ha una porta robusta e non ha finestre. Ogni giorno, quando timbro il cartellino, sogno di chiudermi qui fino a sera; meglio un cesso senza finestre che il cubicolo in cui tento di fare un lavoro che non capisco e a cui non trovo il senso, con la megera urlante e i colleghi che sogghignano nel corridoio come mostruosi gatti del Cheshire. Mentre cerco di rinfrescarmi con un po’ d’acqua, guardo allo specchio la mia faccia che si è invecchiata qua dentro scontando la galera. Al momento pare che mi manchino ancora quattro anni e quattro mesi, ma come passarli, non ne ho la minima idea.

Mi gira la testa, oggi è veramente caldo. Nel mio cubicolo c’erano trentacinque gradi alle otto di mattina, adesso è mezzogiorno e saremo sui quaranta. Mi sono portata un ventilatore da casa, l’ho dovuto incatenare con un lucchetto alla scrivania se no me lo rubano, ma non serve a niente, smuove solo una piccola massa di aria calda e umida. Mi ricordo di un cassiere dei tempi che furono, che la sera chiudeva i conti con i piedi a mollo in una bacinella… Era un’altra epoca, o forse è il ricordo che mi fa sembrare che le carogne di una volta puzzassero meno.

nello specchioNello specchio vedo la faccia di una signora anziana, invecchiata qua dentro mangiando merda perché a fine mese ha bisogno dei soldi. Sono sempre più miope, o forse è il caldo che mi annebbia la vista, o appanna lo specchio, che sembra diventare opaco per il vapore, come se fossimo in una sauna. Va bene che è caldo, ma appannarsi lo specchio, poi… Non era mai successo. Mi gira la testa. Mentre appoggio le mani al lavandino e la fronte allo specchio, per rinfrescare i polsi sotto al rubinetto, vedo un dito che scorre sul vetro, ma non può essere il mio: quante mani ho? Un indice traccia dei segni sulla condensa che ricopre lo specchio, ma i miei polsi sono sotto al getto dell’acqua. E di chi cavoli è, quell’indice? Mi appoggio ancora di più al vetro e cerco di guardarci dentro, e mentre mi sforzo di capire a chi o a che cosa è collegata quella terza mano, che non è la mia, una pietosa vertigine mi fa crollare a terra.

§

ospedale di una voltaMi sveglio in un ospedale del terzo mondo. Vi ricordate le stanze da venti letti, con le spalliere e i comodini di ferro, i pavimenti di graniglia sbrecciata e le padelle per terra? Oh madonna, va a finire che la Kapò è riuscita a farmi ricoverare in un manicomio. Ma esistono ancora? Di certo questa non è la nostra clinica modernissima, vanto di tutta la regione. Col braccio che non è attaccato alla flebo mi tocco la fronte e mi accorgo del bendaggio. Boh, avrò sbattuto la testa nel lavandino, e magari l’Orca Maggiore poi mi ha preso a calci. Trovo il campanello, uno strano oggetto a forma di peretta, anche lui un articolo vintage, lo suono, e chi arriva? Una suora. Sto per svenire un’altra volta.

La maiala maledetta, come ci è riuscita a rinchiudermi dalle suore? Lo sa che sono atea, l’ha fatto apposta, ma come ha fatto? Non hanno chiamato un’ambulanza, mi hanno portato loro… Appena la suora è a portata di voce le chiedo la mia borsa, ho bisogno del telefono, devo chiamare subito mio marito perché mi porti via di qui. E stavolta magari la riesco pure a denunciare. Fosse vero che mi ha preso a calci, fosse vero, la rovino. E mentre sogno un giudice che la condanna a versarmi un risarcimento con cui pagarmi gli anni di contributi che mi mancano, la suora si siede accanto a me, mi prende per mano e mi dice di stare tranquilla, che di là ci sono i miei genitori, ma prima devo vedere una signora che vuole farmi qualche domanda.

poliziottaI miei genitori? E chi li ha chiamati? Oh finalmente, entra una poliziotta, sono salva. Faccio la denuncia subito, forse è la mia occasione, poi qualcuno mi spiegherà perché non mi hanno portato all’ospedale vero, ma in questa specie di carcere. Oddio, non saranno riusciti a farmi mettere in prigione? La maledetta ha chiamato il 113 per farmi arrestare? O forse sono io che ho perso il lume e l’ho accoltellata, e adesso uscirò dal palazzaccio non per andare in pensione, ma all’ergastolo… Mi guardo le mani, non sono sporche di sangue, ma pulite e lisce. Troppo lisce, non hanno più né macchie né rughe, e le dita non sono deformate dall’artrite. Sarà una mia impressione, forse ancora non ci vedo bene del tutto.

La poliziotta si siede vicino a me, mi accarezza una mano e mi chiede se ricordo che cosa mi è successo. La prima cosa che mi colpisce è che mi dà del tu, però mi ricordo eccome, che cosa è successo, e non vedo l’ora di raccontarglielo. Noto che ha un taccuino in mano ma non sta prendendo appunti; mi guarda con occhi sempre più smarriti e quando arrivo a chiedere insistentemente la mia borsa, e il cellulare per chiamare mio marito, si alza e va a chiamare la suora. Che arriva di corsa, insieme ai miei genitori. O meglio, insieme a due persone che somigliano a loro quando avevano quarant’anni. Due psicopatici che piangono e strepitano proprio come usavano fare i miei genitori ai tempi del loro massimo splendore. Mio padre cerca anche di prendermi una mano ma la poliziotta lo allontana, gli intima di starmi alla larga. Mi metto a sbraitare anch’io, voglio mio marito, non riesco a capire come fanno a essere qui i miei genitori, che non escono mai di casa, ma non lui, e cerco di alzarmi anche se ho la flebo, ma la suora maledetta è più veloce, mi placca sul letto e mi fa una puntura, dopo di che ripiombo nella nebbia.

Volete sapere cosa è successo a Beatrice? Non perdetevi la prossima puntata… 

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