Storia di Igwald (parte VI)

 

il mondo di domani

 

Si avvicina la data dell’esame e non posso nascondere di essere alquanto preoccupato.

Questa volta non posso e non devo fallire, non credo che lo sopporterei, ora che le cose si stanno muovendo per il verso giusto, e si intravedono le condizioni perché si possa guardare al futuro con ottimismo.

Ho dovuto trascurare la scrittura che non fosse per motivi di studio, altrimenti sarei stato assalito da quintali di sensi di colpa. Non è stato facile studiare e concentrarsi in questo periodo, soprattutto in quest’ultimo mese, tra la nuova casa e i nervi sempre scossi di mia madre. A tutto ciò si sono aggiunte le paranoie di mio padre e le crisi coniugali dei miei fratelli maggiori.


Queste ultime non devono certo meravigliare… Quel che invece è difficile contrastare sono le strane idee che da un po’ assalgono mio padre a proposito della morte. In realtà fin da giovane è sempre stato ossessionato dal pensiero di morire, soprattutto da quando lo zio Heinrich, che io non ho mai conosciuto, ha deciso di abbandonare questa terra mentre era a pranzo da mio padre, sotto i suoi occhi esterrefatti. Dapprincipio si pensò a un infarto; si seppe soltanto più tardi che il povero zio aveva già il fegato a pezzi per via della sua rinomata tendenza al bere. Ma da allora mio padre ha sempre pensato di essere in qualche modo responsabile di almeno una delle terribili crisi epatointestinali dello zio, e poiché ritiene che un destino ineluttabile sovrasti l’esistenza di ciascuno (anche a garanzia della salvaguardia della specie) va ripetendo che gli toccherà la stessa sorte, pur senza esser bevitore, a causa delle bestemmie che dall’aldilà gli riserva il caro estinto.

 

La nostra casa non è esattamente finita ma io ed Elke ci sentiamo pronti ad affrontare un passo che difficilmente le anguste mentalità dei nostri parenti e conoscenti potranno tollerare: trascorrere un weekend a Salisburgo e approfittare dell’occasione per sposarci.

Proprio così, senza nessuno… tranne ovviamente i due testimoni, scelti tra i nostri amici più stretti, quelli che è sicuro ci capiranno.

 

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Così è stato o, almeno, lo è stato in parte.
La nostra veloce trasferta a Salisburgo, città che io amo molto, si è rivelata piacevole oltre ogni immaginazione. Niente stress, niente assurde cerimonie e inutili festeggiamenti per compiacere parenti e falsi amici pronti in ogni altra occasione a voltarti le spalle o criticarti… solo una brevissima comparsa davanti al funzionario comunale che nel volgere di ventiquattr’ore aveva predisposto i necessari controlli sulle nostre generalità appurando che non vi erano gli estremi per rifiutare di sposarci, e che il giorno seguente, come convenuto, ha formalizzato la nostra unione.
Non che ce ne fosse bisogno: né io né Elke lo ritenevamo strettamente necessario, ma la legge non tutela i single, né coloro i quali, in piena libertà e consapevolezza decidono di convivere e di considerarsi una famiglia a tutti gli effetti. Il matrimonio inoltre avrebbe evitato di scontentare i genitori di entrambi, che certamente avrebbero aspramente criticato la nostra condizione di conviventi, come se si trattasse di un ignobile delitto, mentre non è altro che uno schiaffo alla morale corrente, che guarda sempre con sospetto chi in qualche modo si distingue dalla massa.

La nostra felicità, però, non è durata a lungo. Al rientro in città, avvenuto la sera stessa del matrimonio, siamo andati a casa di Elke per annunciare ai genitori (prima quelli di Elke, poi i miei) la bellaVienna notizia, che non era in realtà una vera novità dal momento che da qualche tempo ne andavamo parlando in maniera più o meno scherzosa, lasciando intendere che non avremmo tardato molto a metterlo in pratica.

Probabilmente non eravamo stati convincenti.

Quando Rose e Paul Weiss hanno capito che non si trattava di uno scherzo sono montati su tutte le furie: Rose ha avuto una crisi isterica, mentre Paul si è limitato ad alzare le spalle allontanandosi dalla nostra vista.

Siamo rimasti lì impalati a guardarci come per convincerci meglio di quello che avevamo sentito e visto, poi siamo andati via senza neanche salutare, anche perché non pensavamo di aver fatto nulla di male e non volevamo sentirci colpevoli né mostrare imbarazzo o pentimento per le nostre azioni. Siamo entrambi adulti e consapevoli, mi sembra.

Era già piuttosto tardi e non aveva senso andare a casa mia per avvertire i miei genitori ora che avevamo capito che tutto ciò poteva essere frainteso causando inutili dispiaceri. Decidemmo pertanto di passare la notte nella nostra casa ancora non finita ma certamente più accogliente di quanto lo era stata casa Weiss. Non avevamo un letto e potevamo appena lavarci, ma non ci siamo persi d’animo: i materassini da campeggio qualche volta possono fare miracoli… Edwin, che era al corrente delle nostre decisioni già da qualche giorno e rispettava le nostre scelte, mise a nostra disposizione un paio di coperte e dei cuscini ed anche delle sedie pieghevoli. Lui stesso si offrì di accompagnarci e ci aiutò a sistemarci alla meglio in quella che doveva diventare la nostra stanza da letto in capo a qualche giorno, tanto infatti era necessario a terminare i lavori. Con un po’ di pazienza avremmo superato le difficoltà. Non volevamo che il piccolo incidente con i genitori di Elke turbasse la nostra felicità.

 

Così trascorremmo la prima notte nella nostra nuova casa. Eravamo entrambi esausti per il viaggio, e per la tensione nervosa che l’inaspettato epilogo della giornata aveva generato in noi: era chiaro che avevamo sottovalutato le possibili reazioni degli altri, e ci dispiaceva sinceramente che proprio i genitori di lei avessero preso così male la cosa, ma non potevamo farci nulla e a ripensarci avremmo senz’altro rifatto ogni cosa senza cambiare una virgola.

 

Il giorno seguente di buon’ora suonarono alla porta e benché ancora gonfi di sonno fummo costretti ad alzarci e a vestirci in fretta.
Avevamo il sospetto che si trattasse dei genitori di Elke i quali dovevano aver indovinato che saremmo stati là, poiché non l’avevamo detto a nessun altro, la sera prima, tranne ad Edwin.
Infatti erano loro. Venivano a scusarsi del loro assurdo comportamento, ma questo atteggiamento di scusa lasciò presto il posto ad un tono di rimprovero che né io né Elke potevamo sopportare. Per fortuna Elke stessa intervenne per bloccare qualunque altra discussione in proposito. Loro avevano capito dal nostro tono fermo di non avere più lo stesso potere di un tempo su Elke e attribuivano certamente a me la colpa di tutto ciò. Francamente non me ne importava più di tanto.
Alla fine decisero di adottare una tattica più bonaria perché temevano di perdere del tutto la loro “bambina”. Si offrirono di darci una mano per sistemare la casa, dal punto di vista economico, ma noi, pur ringraziandoli, rifiutammo senza lasciar loro spazio per replicare.

 

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Col tempo ogni dettaglio del mosaico sembra aver trovato la giusta collocazione: il mio esame di ammissione è andato meglio di quanto sperassi, la casa è ormai finita anche se solo parzialmente arredata, Elke lavora con entusiasmo e non si lamenta dei piccoli sacrifici che stiamo facendo per sistemare ogni cosa.

  

Eppure c’è sempre qualcosa che mi tormenta, non so neppure perché… in certi momenti mi sembra di essere diverso da quelli che riescono a gioire delle piccole conquiste quotidiane, nel lavoro o negli affetti. Mi interessa certo andare avanti e vivere in maniera dignitosa, cercando di ottenere il meglio per me, ma anche per tutti coloro a cui tengo, compresi quelli che non conosco e di cui ignoro la vita come le sofferenze.
Quando faccio mente locale a tutti i viventi di questa terra sono colto dai brividi perché so che in quel preciso istante c’è chi sta morendo o soffrendo per colpa di altri, fra i quali ci sono anche io. È diventato un pensiero fisso, costante, che io cerco di razionalizzare e ridimensionare per quanto mi è possibile, anche se, devo dire, con scarsi risultati. Tutto ciò getta costantemente un’ombra sulla mia condizione psicologica, sulla mia capacità e disponibilità ad essere felice.

 

Qualche volta ne ho parlato con Elke, che senz’altro mi capisce, anche se lei riesce assai meglio di me a non farsi condizionare totalmente, al punto, cioè, di non riuscire più a distinguere i limiti e confini che separano le esistenze degli esseri viventi. Lei mi insegna che è necessaria una giusta dose di “sano” egoismo in assenza della quale saremmo costantemente in balia di un intollerabile senso di colpa per tutto ciò che avviene intorno a noi.

Sono convinto che lei ha ragione anche se non sempre riesco a metterlo in pratica.

Non sono più neanche sicuro che servirebbe a qualcosa parlarne con altri, per esempio il Dott. Hodler; negli ultimi mesi ci siamo visti pochissimo a causa dei numerosi impegni che mi hanno assorbito e anche perché da quando io ed Elke abbiamo preso possesso della nostra casa abbiamo trascorso buona parte delle serate davanti al camino o con quei pochi amici che frequentiamo da anni, Mark, Manuel, Egon, insieme, naturalmente, a Edwin e Dora, gli unici che ci hanno veramente dato una mano quando ne avevamo bisogno.

I genitori di Elke, dopo qualche giorno di buio totale hanno ripreso a essere gli stessi di sempre, cioè a telefonare per sapere se va tutto bene, o se ci sono novità, senza mai oltrepassare il livello delle chiacchiere e dei discorsi più superficiali.

Da loro, comunque, non ci si può aspettare di più.

 

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Da qualche giorno le mie notti hanno ripreso a essere agitate, come avveniva un tempo, quando vivevo nella casa di mio padre.
Mi sono accorto che ho parlato sempre poco, e non volentieri, della mia situazione familiare, forse per un senso di pudore, o di vergogna, o forse solo per illudermi di rimuovere ricordi o situazioni ancora vivissimi dentro di me.

 

Mia madre per esempio ha reagito malissimo quando le ho detto che mi ero sposato.

Sono andato a trovare i miei genitori, da solo, il giorno dopo il rientro, e ho capito entrando che mia madre era in preda ad uno stato depressivo. L’ho capito dal modo in cui mi ha guardato, ma ormai non potevo tornare indietro, e in ogni caso non aveva senso aspettare oltre, dal momento che Stephen, con il quale avevo fugacemente parlato al telefono da Salisburgo s’era inavvertitamente lasciato sfuggire del matrimonio, e dunque i miei ne erano al corrente. emile mayerling
Da giorni Louise non stava bene, anche perché mio padre la rimproverava spesso per qualunque cosa, e questo contribuiva a peggiorare il suo stato. Ma poiché lei ha sempre evitato lo scontro diretto con lui ha attribuito a me (al dolore che le avevo procurato escludendola dal mio matrimonio, cosa non vera, dal momento che anche con loro ne avevo parlato in precedenza) la ragione di questa sua ultima crisi. Ho cercato invano di spiegare che non avevo voluto escludere proprio nessuno, che il matrimonio era soltanto un fatto formale al quale non attribuivo nessun valore speciale.

Non è servito a nulla e forse ha peggiorato le cose.

Sono dovuto andar via mentre lei mi urlava cose irripetibili e mio padre mi pregava di non darle retta, perché quando lei sta male dice e fa delle cose terribili che dimentica una volta che la crisi è passata. Ma per chi, come me, ha trascorso tanti anni con un soggetto malato è molto difficile fingere che tutto va bene e credere che le cose si aggiustino senza lasciare segni profondi.

 

Questa crisi è durata assai più delle altre che di solito si sgonfiano nel giro di due giorni, e per circa due settimane ho dovuto tenermi alla larga ricevendo notizie da Edwin che ogni sera, dopo il lavoro, andava a controllare la situazione. Speravo, ovviamente, che tutto finisse, come già era avvenuto in passato, quando le medicine avessero ripreso a fare effetto.

 

È difficile spiegare a chi non è avvezzo lo stato di tensione che si vive in queste circostanze, la consapevolezza di non avere mezzi per combattere la malattia e la pazienza di cui è indispensabile armarsi per non soccombere.

 

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Elke ha ripreso a viaggiare di frequente per motivi di lavoro.

Il lunedì successivo al matrimonio fu costretta a recarsi per quattro giorni a Parigi per consegnare e discutere alcuni risultati ottenuti proprio durante la sua precedente permanenza in quel laboratorio.

 

In queste circostanze di forzata solitudine approfitto per dedicarmi ai miei studi, e ora che il mio progetto di essere ammesso al corso di specializzazione ha preso corpo voglio utilizzare al meglio il mio tempo per avviare una preparazione sistematica e approfondita delle principali tematiche che interessano la Filosofia. Ci sono settori e autori che devo esplorare ex novo e qualche volta penso che data la vastità degli argomenti non mi basterà tutta la vita per esaurirli. Così alle volte mi affanno a rincorrere nozioni che oppongono forti resistenze e che mi fanno sconfinare in ambiti sconosciuti dandomi un senso di dispersione ma anche di infinità al quale, talvolta, mi piace abbandonarmi.

 

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Qualche volta sono sopraffatto dalla strana sensazione di non dover durare a lungo, e forse a pensarci non sarebbe un male.

Non voglio invecchiare, proprio non mi ci vedo, e soprattutto non vorrei mai esser di peso a nessuno.

f.h.Con Elke abbiamo preso la decisione di non mettere al mondo dei figli perché nessuno di noi vuole sacrificare gli spazi dedicati al lavoro e allo studio, ma soprattutto per evitare il carico di responsabilità che comporta la generazione ed educazione di un bambino.
Naturalmente nessuno tra amici o parenti condivide questo punto di vista e c’è perfino chi scommette che prima o poi capitoleremo. Poveri illusi!
Sembra quanto mai strano a chiunque il fatto che noi non desideriamo “completare” la nostra unione, e qualcuno lo trova perfino mostruoso.
Elke si sforza di far capire che considera il suo lavoro al di sopra di tutto, ma poiché è una donna questo suona ancora più intollerabile per la mentalità comune.

 

Dal canto mio le ragioni per non voler moltiplicarsi sono forse più complesse in ragione anche del mio particolare carattere e per l’incapacità di nutrire fiducia sul destino del nostro pianeta.
Forse ci sono stati periodi peggiori per l’umanità e sicuramente l’attuale progresso dell’uomo in tutti i campi rappresenta un motivo di vanto per tutta la specie.
Purtuttavia questo non è sufficiente, almeno per me, e non costituisce motivo di speranza che le cose cambino in meglio.
Non sopporto il modo in cui questo sistema ci allontana gli uni dagli altri, ponendoci tutti su una falsa linea di partenza che già all’origine sancisce discriminazioni di ceto, di razza, di cultura e che pone come traguardo il denaro, il successo, il potere, contrabbandando falsi valori e ideali ai quali si adegua la maggioranza.
Non sono queste le cose che voglio per la mia vita e non le vorrei per nessuno dopo di me, ma è estremamente difficile cambiare il sistema dall’interno senza esserne prima o poi escluso o sopraffatto. Tutti gli amici, i compagni di scuola, hanno fatto la stessa fine: la laurea, il matrimonio con tutta la famiglia e con fastose cerimonie, la carriera magari facilitata da un padre facoltoso, e poi il resto della routine borghese, la nascita di un figlio e l’osservanza di tutte quelle regole che tanto piacciono alle persone di una certa età.
A nessuno di questi passa mai per la testa che si può vivere anche, o solo, di altre cose, diverse e non meno gratificanti, come allargare la propria cultura e i propri orizzonti mentali.

 

(continua)

 

 

Paola Cimmino, Storia di Igwald, 1993 (rev. 2012)

 

 

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