Buongiorno cari amici, mi ripresento: sono ancora io, Merlino, il Gatto Samurai. So che sentite la mia mancanza e che ogni tanto devo farmi vivo se no andate in crisi di astinenza, e allora eccomi. Oggi sono leggermente nervoso, non è da me perdere un’ora sotto le mura del Palazzo dei Veleni ad aspettare un fantasma, però si tratta di Desdemolo, il mio migliore amico, e se tarda avrà le sue ragioni. Siamo di nuovo impegnati in una buona causa, il soccorso a donzelle in difficoltà, e la causa questa volta è ancora migliore perché la “donzella” in questione, pur se attempata, è la nostra Umana, la signora che si prende cura di tutte le creature abbandonate della Gatteria di Piazza delle Erbe. Per vivere, quella povera donna è ancora costretta a lavorare nel Palazzo dei Veleni, perché ogni volta che si avvicina l’età pensionabile, i ladri, i puttanieri e i mafiosi che governano questo disgraziato paese spostano l’asticella del traguardo un po’ più in là, e lei, sempre più stremata, deve stringere i denti che non ha più e tirare avanti. Noi facciamo il possibile per tenerla su di morale, ho il sospetto che anche Desdemolo non abbia abbandonato il Palazzaccio come tutti gli altri fantasmi solo per non lasciarla, ma è sempre più difficile raccogliere i suoi pezzi per strada.
Qualche giorno fa il mio amico si è spaventato, un gemito straziante l’ha svegliato dal suo sonnellino in cima alla torre e l’ha vista piangere in ginocchio davanti a un portabiciclette. Santo cielo, si è detto, è scoppiata del tutto, e si è materializzato accanto a lei sotto forma di piccione. L’ipotesi della pazzia si è confermata sentendo che tra i singhiozzi invocava Attila. Il mio amico è volato a convocarci, prima che qualche zelante vigile urbano chiamasse la Neurodeliri per un trattamento sanitario obbligatorio: siamo in una piccola città e una signora anziana, accartocciata in ginocchio davanti a un portabiciclette mentre piange e invoca il Re degli Unni, fa ancora un certo effetto. Io ho raccolto i ragazzi della Gatteria e ci siamo precipitati da lei, per cercare di salvarla dalla camicia di forza, anche se ci aspettavamo il crollo da un momento all’altro, quella povera donna è troppo disperata per vivere. Per fortuna la disgrazia non era così grave: Attila era solo il nome che aveva dato alla sua vecchia bicicletta, e piangeva perché le era stata rubata. Noi abbiamo tirato un sospiro di sollievo, per questa volta il manicomio non era imminente, e il Conte Vronskji si è affrettato a rassicurarla, di vecchi catorci come il suo ne avremmo trovati dappertutto per pochi euro, ma lei no, voleva la sua Attila, pure femmina l’ha fatta diventare. Voleva la bicicletta comprata usata ai tempi dell’università; non chiedetemi come fa a stare ancora in piedi e chi può aver perso del tempo a rubare un simile cimelio, forse un collezionista, ma la nostra Umana era così disperata che ci siamo impegnati a trovarla al più presto.
Per un fantasma e un branco di gatti randagi trovare una bicicletta rubata è uno scherzo, e infatti l’abbiamo localizzata in un attimo. Come sospettavamo, era stata sottratta per dispetto da un suo collega, che per quel perfido scherzo si era portato perfino le tronchesi da casa. Quei maledetti che lavorano con lei la detestano e fanno di tutto per farla soffrire, perché è diversa da loro; quella specie di subumani viscidi e schifosi, che hanno fatto fuggire perfino i fantasmi, disgustati dal fetore delle loro anime marce, non sopportano chi non si adegua al necessario standard di abiezione. Sapevano che lei è affezionata a quel vecchio catenaccio e uno dei più stronzi, uno “sborino” spocchioso del genere “so tutto io”, ha rubato la vecchia Attila solo per abbandonarla al parcheggio dove tiene la sua elegante e lustra macchinina. Dopo aver messo al sicuro il rottame, ci siamo preoccupati di rendere un po’ meno splendente l’auto del fedifrago: con le quattro gomme a terra e tutti i vetri rotti, tutti, ma dico tutti, compresi gli specchietti, la macchina ha perso un filino di charme, e il tocco di classe della cacca sui sedili è stato magnifico, visto che i piccoli avevano la diarrea. L’intera Gatteria si è divertita a graffiare la vernice lucidata a cera, soprattutto i cuccioli, dovevate vedere come si davano da fare con quelle unghiette, e dopo aver divelto la scatola del cambio Desdemolo ha detto che per il momento poteva bastare, ci avremmo pensato la notte seguente a sottoporre allo stesso trattamento anche il camper. È stato bello, ci siamo tanto divertiti.
Oggi siamo qui, sotto al Palazzo dei Veleni, per riconsegnare Attila alla sua legittima proprietaria, ma il ritardo di Desdemolo mi preoccupa. Io naturalmente so andare in bicicletta, anzi, sono piuttosto bravo, ma gli abitanti di questa piccola città non sono preparati allo spettacolo di un gatto ciclista e la missione è toccata al mio amico, però neppure un fantasma alla guida è una sicurezza: lui per definizione è invisibile e una bicicletta che si pedala da sola è ancora una novità. Per fortuna mi sono accorto che quello stupido spettro era già arrivato e stava perdendo tempo a chiacchierare con Rasputin, il capo dei Ratti di Fogna. Un suo amico… boh, de gustibus! Io non lo sopporto, ma Desdemolo lo ha visto crescere e gli è affezionato. Finalmente la nostra Umana è uscita dal suo turno di tortura e quando ha rivisto la sua vecchia Attila appoggiata al muro è scoppiata di nuovo in lacrime, per la felicità. Ci ha assicurato che lo scherzo al suo collega è riuscito benissimo, la perdita dell’auto e del camper gli ha fatto venire il colpo della strega, e tutti allegri siamo tornati alla Gatteria di Piazza delle Erbe. Per festeggiare, avevamo preparato ciambella e albana dolce e ci siamo riuniti sotto i vecchi banchi del mercato per brindare alla giusta punizione che spetta agli stronzi e ai figli di puttana. Dopo qualche bicchiere di vino la nostra Umana era più allegra, e ci ha voluto raccontare una storia.
<<Ragazzi, non so come ringraziarvi, non potrei vivere senza di voi, ed è giusto che vi spieghi perché questo rottame è così speciale per me. Non sono sempre stata così, vecchia, curva, triste, intrappolata in un incubo: Attila è tutto quello che mi rimane di un tempo in cui ero giovane e carina, avevo voglia di ridere e scherzare, e ho assaporato il massimo della libertà che la vita mi ha concesso. Erano gli anni Settanta, un’epoca che non riesco a descrivervi perché non ha alcuna somiglianza con questo tragico presente, “l’inverno del nostro scontento”. Io avevo avuto il mio colpo di fortuna, ero riuscita a convincere i miei a lasciarmi andare a Bologna per studiare, e in quel periodo l’università di Bologna era un gran bel posto dove stare. Avevo tutta la libertà che si poteva desiderare: non dovevo lavorare perché avevo l’assegno di studio, i miei genitori stavano a molti chilometri di distanza, mangiavo quando avevo fame e dormivo quando avevo sonno. Oddio, certe mattine mi toccava alzarmi presto, le lezioni obbligatorie erano tutte alle otto, ma dopo mi organizzavo come volevo, quando avevo gli esami dormivo fino a tardi la mattina e studiavo fino a sera, poi uscivo con gli amici, nessuno mi imponeva un cartellino da timbrare. Frequentavo solo la gente che mi era simpatica, non ero costretta come ora a subire le angherie delle viscide carogne, e stavo anche riprendendo un buon rapporto col cibo. Mi ero liberata dalla cucina scotta e insipida di mia madre e per un anno ho vissuto di gelato e bignè. I giorni volavano: frequentavo le lezioni, studiavo per gli esami e mi rimaneva tanto tempo libero per stare con gli amici. I rapporti con gli altri allora erano semplici: se ci si trovava bene, si passava il tempo insieme, si faceva la fila in mensa, si andava al cinema, ci si chiudeva in casa di qualcuno per parlare fino a tardi, si fumava una canna sui gradini di San Petronio. Se non ci si trovava bene, si cambiava compagnia. Dividevo l’appartamento con altre ragazze, e siccome la convivenza è difficile, ogni anno cambiavo “casa”. Chiamarle case era una parola grossa, un letto in appartamenti fatiscenti e sovraffollati, ma non ci si badava più di tanto, allora.
Sono sempre stata miope e distratta e ci ho messo un po’ ad accorgermi del “Movimento”. Il primo anno l’ho passato tutto ad assaporare la magica libertà mai provata fino a quel momento, a studiare matematica, a girare in bicicletta con Attila sotto i portici, a vedere anche due film in una sera con gli amici, ad andare in convulsione dalle risate per una battuta e a fare molto sesso promiscuo. Frequentavo una facoltà piccola e un po’ decentrata, non sapevamo bene cosa succedeva, e sinceramente io ero così giovane che non mi interessava molto altro al di fuori del mio piccolo mondo. Un giorno di marzo del 1977 eravamo a lezione al gran completo, tutti e quindici, quando sentimmo i bidelli sprangare il portone. Fuori c’erano rumori strani, grida di persone e botti di lacrimogeni. Finita l’ora corremmo tutti sul tetto della facoltà per vedere cosa succedeva, inseguiti dai bidelli che ci ricacciavano dentro con le scope perché, dicevano, fuori si sparava. E noi scemotti, a dire “ma fin quassù non ci arrivano i lacrimogeni”… I miei amici decisero di rimanere rintanati dentro la facoltà fino a sera, se necessario, e i bidelli erano ben decisi a non aprire il portone per nessun motivo, ma quel giorno io dovevo andare a casa, era venerdì. Avevo l’obbligo di passare il fine settimana a casa dei miei genitori e la cosa mi riempiva di sconforto, a Bologna facevo quello che volevo mentre a casa non potevo nemmeno uscire la sera. Ne approfittavo per dormire e studiare, ma appena possibile inventavo scuse per accorciare il fine settimana in famiglia, come una maglietta lavata in acqua bollente.
Quel venerdì avevo in mente un colpaccio, andare a casa all’ora di pranzo e ritornare la sera stessa con una scusa, per un fine settimana di sesso sfrenato nell’appartamento libero dalle coinquiline, e per niente al mondo avrei rinunciato all’evento. Convinsi il bidello a farmi uscire da una porticina laterale e mi avviai verso la stazione a piedi, gli autobus non passavano. Appena fuori, nel vicoletto, mi toccò calarmi nella realtà, quella volta non si trattava di una normale manifestazione. La gente correva da tutte le parti e la polizia pure, studenti davanti e celerini dietro. In quel periodo avevo deciso di provare a non essere miope e per qualche ora al giorno tentavo di portare le lenti a contatto; non avevo la minima idea di che effetto facessero coi lacrimogeni ma l’ho imparato, mi sono dovuta nascondere tra due macchine per strapparle via, sperando di non capitare sotto una carica di manganellate. Con gli occhi rossi e gonfi come pomodori sono riuscita a raggiungere la stazione e quando mi sono seduta sul treno ho tirato un bel sospirone. A casa nessuno sapeva cos’era successo, la televisione all’epoca trasmetteva solo la sera e nel dubbio sono tornata a Bologna prima del telegiornale. Il treno era deserto ma non mi sono preoccupata, dal mio limitato punto di vista il venerdì sera erano affollati solo i treni che partivano da Bologna, non quelli che ci andavano. Però anche la stazione era deserta, e qualche problema ho cominciato a pormelo quando ho visto i sacchi di posta sparsi in mezzo ai binari. Ho avuto perfino la faccia tosta di chiedere a un ferroviere cosa era successo, e costui mi ha aggredito con violenza: “Cosa è successo? Guarda che cosa avete combinato!”. Non capivo quel plurale, io venivo da casa dei miei…
Davanti alla stazione nemmeno un autobus, mi toccò andare a casa a piedi. Il centro era devastato e sprangato, non c’era niente di aperto, non avevo mai visto Bologna così. Ho incontrato altri ragazzi, mi dissero che quella mattina in via Mascarella era morto uno studente, gli avevano sparato. A me venne in mente il Cile, il colpo di stato era di pochi anni prima e mi faceva ancora paura: vivevo nel mio mondo, però non ero così stupida da non capire che la dittatura e il ritorno del fascismo avrebbero posto fine anche alla mia piccola libertà tanto amata e mi avrebbero ricacciata nel ruolo di donna figlia di operai che mi sarebbe spettato nel ventennio, in casa, semianalfabeta, marito figli e botte. Da allora Bologna non è più stata la stessa, si è creata la frattura tra la città e gli studenti, il modello di città di sinistra, aperta e all’avanguardia nei servizi, è stato volutamente messo in crisi fino alla sua totale distruzione, in pochissimi anni. Io ho capito che non potevo vivere solo nel mio mondo perché il mondo di fuori ci entrava dentro con la forza, che lo volessi o no. Sono sempre stata fuori da ogni schieramento politico, un cane sciolto come si diceva allora, ma un cane con gli occhi aperti, e quello che ho visto da allora in poi è stato sempre più brutto.>>
Quando la nostra Umana ha terminato il suo racconto eravamo ancora tutti svegli, e questo è il massimo risultato che ci si può aspettare se si parla a una colonia felina. I cuccioli erano spaventati, volevano sapere se i poliziotti che la notte vanno a mangiare i bomboloni dal fornaio avrebbero sparato anche a loro, e ce n’è voluto per mandarli a letto tranquilli. Io e Desdemolo abbiamo accompagnato la signora a casa, guardando Attila con un certo rispetto: non è un rottame, è un amuleto che porta dentro di sé lo spirito di un tempo mitologico. Lungo la strada la nostra Umana ci ha sfondato di chiacchiere, non aveva mai parlato così tanto, ci ha raccontato di cose stranissime, il femminismo, i diritti delle donne, le radio libere, i sogni, le speranze di una generazione che secondo noi non è mai esistita, lei se l’è sognata oppure ha esagerato con l’albana dolce. Il futuro per noi è una forma verbale, a sentir lei ai suoi tempi era una prospettiva… Ci ha salutato sconsolata come al solito; io sono andato a svegliare Lebowski perché quando si sente il bisogno di tirarsi su di morale non c’è niente di meglio che una gara di pisciate sui tappeti con contorno di crema al whisky, e Desdemolo è ritornato nel Palazzaccio scuotendo le catene e mormorando “Il problema dei futuri è quando passano al presente”. Si vede che questo presente ce lo siamo meritato.
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