Il canestro


di Enzo Buscemi

La sveglia era naturalmente anticipata. Non che ci fosse un richiamo da qualcuna delle ragazze di servizio. Né tantomeno da Mamma e Papà.

Nella nostra zona, in Sicilia, capitava ogni anno. Ed era atteso con ansia, dopo la prima, inaspettata quanto entusiasmante, esperienza.

E, ogni anno, all’alba di quel giorno, cominciava la ricerca. Il posto della scoperta era sempre diverso. E, nell’appartamento del nostro antico palazzo, di nascondigli, ahimè, se ne scoprivano sempre di nuovi.

Appena sveglio o, meglio ancora (visto che il sonno lo avevo interrotto da parecchio) quando secondo me potevo alzarmi senza destare preoccupazioni per i miei genitori, sempre attenti alla mia salute e integrità, la prima ispezione era per il pavimento.

Sotto il grande letto di lucidissimo rame, con pomi di opaline azzurra, ai quattro terminali della spalliera e dell’altro componente, che non so come si chiamasse, dalla parte dei piedi.

Nulla. Non c’era nulla. E allora?

Veste da camera (“mai lasciare la camera da letto senza”) raccomandava la dolce Ciccia. Storica responsabile del personale di servizio, sin da quando mia madre, le sue sorelle e il fratello erano meno che adolescenti. I suoi consigli (dolcemente categorici) non si discutevano. Le volevo un gran bene. Come una seconda nonna, e la chiamavo per nome.

Quindi una stretta alla cinta, pantofole e di corsa via per il giro di ricerca.

La mia camera aveva due balconi su Piazza Duomo e altrettanti sul corso. Enorme. Oltre al letto, l’arredavano un grande comò e un tavolo rotondo, preziosamente impiallacciati Maggiolini, una ‘ballerina’, toeletta barocca, con specchio incorniciato e piano in marmo tutto curve, che mi accompagna ancora oggi, e alcune sedie Thonet, tanto leggere da poterle sollevare con un dito. Quadri con scene campestri alle pareti completavano l’arredamento.

Di corsa nel lungo corridoio. C’erano sei porte. Tre per lato per altrettante stanze.

La prima, lo studio del defunto bisnonno. Con la scrivania, bellissima, quasi misteriosa. Costellata da una serie di piccoli cassetti che all’occorrenza una saracinesca apparsa, a sorpresa, della parte alta del mobile nascondeva, andando a congiungersi col ripiano da scrittura, foderato in pelle ricamata.

Ne avrei ammirato una simile, molti anni dopo in Prima pagina, un divertente film con Jack Lemmon e Walter Matthau.

La porta accanto a quella dell’antico studio, si apriva di rado. C’era la cappella. Con un piccolo altare, quadri in carattere, e un simulacro dell’Ecce Homo. Sinceramente piuttosto inquietante. Con il resto del contenuto di quell’ambiente papà, fortunatamente, ne fece omaggio all’arciprete del paese.

Nello studio, una breve ricerca non diede risultati. Nella stanza seguente nulla da segnalare. C’era poco da nascondere. Era la barberia domestica.

Il nonno, il nobile Giampaolo, da Messina, tornava a passare l’estate in paese. E ogni mattina, Bernardo, il figaro di famiglia veniva a raderlo. In quella stanza c’era una poltrona professionale, in legno lucidissimo, un grande specchio con rispettiva consolle, con spruzzatori, vaschette d’argento per il sapone, i relativi pennelli, rasoi e forbici. Su una parete un grande scaffale, con sportelli in cristallo, conteneva asciugamani e quanto utile all’opera di Bernardo. Nemmeno in questa stanza trovai ciò che cercavo.

Avevo evitato di visitare la cappella. Mi metteva in ansia. Destino diverso per l’altro lato del corridoio. Le tre porte si aprivano su una sorta di tesoro.

La biblioteca, orgoglio del nonno che, già da piccolissimo, mi aveva avviato alla scoperta della lettura. Scaffali sino al soffitto. Le cameriere più giovani, ogni giorno, con l’ausilio di una scala e di compiacenti piumini spolveravano i preziosi volumi, la maggior parte rilegati in pelle, con religiosa attenzione.

In quelle stanze passavo momenti bellissimi. Forse non proprio calibrati alla mia età. Ma quei libri, alcuni anziani di oltre un paio di secoli, mi affascinavano. Gustavo le pregiate incisioni di quelli dedicati alla botanica, all’antica scuola di medicina, all’anatomia. Leggevo soprattutto quelli di storia su popoli e leggende che mi apparivano come di mondi diversi.

Ma, ogni anno, nel giorno della ricerca, frenavo la mia curiosità e l’ansia di conoscenza che mi avrebbe accompagnato nel tempo. E cercavo.

Aprivo, uno dopo l’altro, gli sportelli degli scaffali più bassi. Oltre ai libri c’erano gli oggetti più impensabili. Penne d’oca con pennino, usate chissà quanti anni prima, tabacchiere e vassoi d’argento, affilatissimi tagliacarte e tanto altro.

Finalmente, dietro a una fila di vasi deliziosamente miniati, appariva qualcosa di atteso. Niente di particolare nella sua assoluta semplicità ma, s’indovinava carico di dolcissime promesse.

Era “il canestro” il regalo segreto dei santi e dei morti per i due primi giorni di ogni novembre, dei miei anni verdissimi.

“Il canestro” denominazione semplice per un contenitore di rami intrecciati, ma colmo di profumate meraviglie. Decine di dolci di ‘pasta reale’. Una delicata specialità isolana di mandorle, zucchero e aroma di limone, foggiata a imitare perfettamente vari generi di frutta, delicatamente colorati identici agli originali.

La ‘Pasta reale’ si chiamava allora. E accanto, un altro dolce caratteristico del 2 novembre: le “Ossa di morto” denominazione macabra, per un dolce squisito al forte aroma di chiodi di garofano.

L’impasto, del quale, certo, non conosco la composizione, prendeva immagine da appositi stampi che riproducevano, in scala, la foggia di ossa umane. Qualcosa di simile alla tradizione messicana della festa dei morti. Ma c’era dell’altro.

Insieme al profumato assortimento si scoprivano altri oggetti del mio desiderio: dei bellissimi modellini di automobili, di famose marche tedesche.

Era questo ‘Il canestro’, usanza carica di mistero (come per Babbo Natale) donato dai santi e dai morti.

Umile. Non credo esista ancora. Il processo naturale dell’esistenza e, soprattutto il progresso, con l’ingenuità, ne hanno smantellato anche quel briciolo di mistero capace, però, di offrire un momento di gioia.

 

 

Immagine di copertina e altre: tratte, per soli scopi illustrativi, dalla rete.

 

 

Gamy Moore
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