L’innominabile dell’alta val d’Adige

Non è vero ma ci credo, ovvero come ho imparato a credere alla iettatura e vivere felice.

Molti più nobili scrittori hanno trattato di questo controverso tema: i tragici greci, PirandelloPeppino De Filippo  e tanti altri ancora. Questa mia cialtronata non vuol essere un trattato teorico sulla iettatura, sfiga o jella che dir si voglia, ma solo una esemplificazione pratica di essa attraverso il racconto su di un personaggio iettatorio con il quale ho avuto la sventura di imbattermi.

La ragione dice che la iettatura non esiste ed io sono razionale, ma ditemi,  dopo avere letto queste righe, se qualcuno dotato di ragione può negarne l’esistenza.

Quando sono arrivato a Bolzano, giovane e di belle speranze, ho tolto inconsapevolmente, lo sottolineo, l’incarico ad un vecchio funzionario dell’INPS che l’aspettava da anni ed il brutto è che siamo costretti a lavorare insieme.

Siamo agli antipodi: io giovane, lui vecchio (più o meno alla soglia della pensione), io meridionale lui un ibrido tra un’austriaca ed un ferrarese che aveva nel 1939 optato per la Germania (tanto è vero che durante la guerra aveva indossato la divisa della Wermacht), le nostre idee politiche sono ovviamente agli antipodi ed infine io sono il suo capo e lui non digerisce la cosa.

All’inizio le cose vanno abbastanza bene se si fa eccezione che mi nasconde documenti importanti.

In ufficio il soggetto è mal visto ed è sempre solo. Cerco di fare amicizia e gli strappo solo qualche parola stentata.

Poi cominciano tutta una serie di piccoli incidenti.

Va a fuoco lo sgabuzzino alle spalle del mio ufficio.

Scendendo di corsa il grande scalone che dal primo piano porta al salone a piano terra, non mi accorgo che la grande porta di cristallo è chiusa e mi ci infilo dentro… Per fortuna il cristallo è infrangibile, ma dopo quasi 40 anni ho ancora una piccola cicatrice sulla gobba del naso.

Elena, la mia segretaria, che ha trovato i documenti nascosti dal soggetto, viene investita da un portellone di un grosso archivio metallico e si rompe la gamba sinistra.

Durante una cena di festeggiamento a un collega che andava in pensione trovo l’unico frutto di mare infetto e mi becco una intossicazione da Guinness dei primati.

Questi i più grossi, ma vi sono anche altri episodi di minor rilevanza di cui non occorre dar conto nel dettaglio (tipo cielo che si annuvola all’improvviso, debolezza congenita dei copertoni della mia macchina, documenti importanti sui quali cade una tazza di caffè lontanissima).

Per la mia giovinezza e razionalità non attribuisco alcun significato soprannaturale a questi eventi, benché sul lavoro percepisco allusioni e sguardi di compassione.

La mia segretaria è ancora in ospedale, la frattura non guarisce.

La vado a trovare ed è molto abbattuta. Mi fa cenno di avvicinami e mi mormora: “è tutta colpa sua, quel maledetto, secca le piante, è tremendo. A Salorno nel suo paese nessuno osa avvicinarsi alla sua casa. Se non ci mette niente di suo fa disastri. Figurati ora che ti odia. Cerca di difenderti!”Le sorrido: “Ma Elena, ma cosa vai a pensare, la iettatura! Vuoi dire che…” Elena mi mette la mano davanti alla bocca: “Non dire il suo nome!”

Tornando in ufficio continuo a sorridere, ma le parole di Elena mi frullano nella mente e inizio a vedere le cose da un altro punto di vista. In effetti il soggetto (vedete, sono passati quasi quarant’anni e non oso nominarlo) ha un’aria davvero iettatoria: veste di scuro, non sorride mai, ha una voce profonda e cupa, il colorito grigiastro, i folti capelli neri imbrillantinati pettinati all’indietro, spessi occhiali da miope, la fronte bassa.

Cerco di dimenticare la cosa, ma inizio ad evitarlo e mi sforzo di non polemizzare con lui anche se me ne dà occasione in ogni momento.

E’ un venerdì 17 e sono molto preoccupato. Per tutta la mattina il soggetto cerca lo scontro, mi contraddice, finge di non capire le cose che gli dico, continua a borbottare su ogni cosa, ma cerco di mantenermi calmo. Quando però mi porta una tabella da consegnare in direzione, elaborata a modo suo ed inutilizzabile, perdo le staffe ed inizio a urlare. Lui gelido e senza scomporsi: “Maledetti napoletani, ci avete invaso, vi siete presi tutto, ma presto finirete fuori strada”.

 Mi lascia lì impalato senza parole e se ne va.

Com’è finita ?

Bene per me! A noi di Napoli e chi ci ammazza?

Il soggetto ritornando a casa con la sua macchina sull’autostrada del Brennero è stato investito da un autotreno che ha saltato lo spartitraffico.

Conseguenze: Auto distrutta, fratture multiple, quattro mesi di ospedale.

Non l’ho più rivisto, uscito dall’ospedale è andato in pensione.

Ma la maledizione era arrivata a destinazione!

Eh sì! L’autotreno era targato Napoli e l’autista era napoletano.

Si ringrazia Maria Laura Villani per l’editing

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