C’era una volta Quattroruote [8] La verità dei numeri


di Raffaele Laurenzi

VELOCITÀ, RIPRESA, FRENATA

LA VERITÀ DEI NUMERI

Le prove su strada di Quattroruote si scrivevano a Milano ma si facevano a Roma: era l’Isam, Istituto Sperimentale Auto e Motori, che rilevava le prestazioni delle automobili attraverso una lunga serie di test e di misurazioni.

L’Isam l’avevano fondato Gianni Mazzocchi, editore e direttore di Quattroruote, e suo cugino Flaviano Moscarini, direttore dell’istituto.

I dati delle prove, che trovavano spazio sulle pagine della rivista sotto forma di numeri, grafici e tabelle, erano la grande novità di Quattroruote. Il loro rigore scientifico sancì il primato della rivista su tutti i periodici concorrenti. Perché sui giudizi si può anche discutere, sui numeri no.

All’inizio qualcuno osservò che quelle pagine erano troppo tecniche: i lettori non le avrebbero capite. Invece conquistarono il pubblico. Mazzocchi aveva intuito che, dopo aver sognato l’automobile per decenni, gli italiani sarebbero stati dei consumatori insaziabili di quei test-verità, che smentivano o correggevano i dati dichiarati dalle case costruttrici e mettevano in competizione tra loro i vari modelli di automobili. Si erano formate tra i lettori autentiche tifoserie: alfisti, lancisti, fiattisti, che si confrontavano ciascuna forte dei dati pubblicati dalla rivista.

Le prove su strada e le inchieste di Quattroruote avevano inaugurato in Italia un nuovo genere di giornalismo: la difesa del consumatore, che ancora oggi caratterizza le pubblicazioni dell’Editoriale Domus. Gianni Mazzocchi aveva anticipato le critiche che l’avvocato statunitense Ralph Nader rivolse all’industria automobilistica statunitense e che culminarono nel 1965 nell’aperta denuncia della pericolosità della Chevrolet Corvair, pubblicata in un famoso libro: Unsafe at Any Speed, Insicura a qualsiasi velocità.

Negli anni Settanta io mi occupavo di inchieste. Tuttavia capitava spesso che da Milano fossi spedito all’Isam, anche come semplice autista. All’epoca ero scapolo, ero giovane, perciò “sacrificabile”.

In realtà all’Isam andavo volentieri: mi incuriosiva il modo di lavorare dei romani e avevo l’occasione, strada facendo, di fermarmi nella mia Firenze, giusto il tempo di bere una birra a piazzale Michelangelo con i vecchi amici e poi proseguire per Anagni (FR), dove l’Isam aveva inaugurato una nuova sede. Tutto senza chiudere occhio.

Una volta, erano i primi anni Settanta, mi fu chiesto il pomeriggio tardi di portare una macchina all’Isam, in modo che la mattina alle 6 si potessero avviare i test di una prova urgente. Avevo giusto il tempo di prendere dentifricio e spazzolino, praticamente avrei viaggiato tutta la notte.

Non ricordo che macchina fosse, mi pare una Fiat 125, che non era velocissima ma comunque mi permetteva in autostrada di tenere agevolmente i 130. Superata Firenze, mi trovai sulla scia di un OM Leoncino adibito al trasporto giornali. Li conoscevo quei piccoli camion: erano telonati, ma col vano di carico che non sporgeva dalla sagoma della cabina per ridurre la resistenza all’aria. Andavano forte perché i motori Diesel erano truccati: eliminato il limitatore di giri, la potenza massima schizzava in alto. C’era il rischio di sbiellare, sicuramente si riduceva di molto la durata del motore, ma questo poco importava al trasportatore: contava di più che i giornali arrivassero in tempo – e con qualunque tempo – per l’apertura delle edicole.

Il Leoncino me lo trovai davanti verso Arezzo. Approfittai di una leggera salita, dove il camion carico di carta perdeva velocità, per sorpassarlo facilmente e perderlo di vista. Un’ora dopo ero al casello di Magliano Sabina. Mentre allungavo la scheda al casellante assonnato, venni illuminato da due fari potenti: incredibile, erano i fari  del Leoncino! Aveva trasportato quintali di carta, aveva tenuto il mio passo e probabilmente aveva speso di combustibile meno di me che andavo a benzina. Fu allora che divenni un estimatore del motore Diesel.

Arrivai all’Isam che era ancora buio, in anticipo sull’orario delle prove: il portiere aprì il cancello e mi indicò dove lasciare la macchina. Mi stavo dirigendo al posteggio, quando un cagnaccio da guardia di almeno cinquanta chili, inferocito, mi si lanciò contro. Abbaiava, ringhiava, dava forti testate sulla carrozzeria. L’assedio durò un interminabile minuto, finché il guardiano non riuscì a riportare il cane nel suo recinto. Controllai i danni: il parafango sinistro era graffiato, sull’asfalto c’erano i frammenti della “gemma” di plastica della freccia strappata a morsi. Quella volta la macchina in prova fu fotografata soltanto sul lato destro…

I test si facevano su una pista in disuso dell’aeroporto di Ciampino. Era in cemento, praticamente carta vetrata. Alla fine, almeno due gomme erano da buttare. Ma la velocità non si faceva a Ciampino: l’area a disposizione non era sufficiente per lanciare la vettura.

Si andava inizialmente sulla Cristoforo Colombo, l’ex via dell’Impero. La prova si svolgeva all’alba, il traffico era scarso, non vi erano limiti di velocità e i piloti erano bravissimi, ma ogni volta, se andava bene, bisognava accendere un cero alla Madonna. Che un giorno si distrasse, perché alla fine un incidente ci fu, e pure grave.

Non si poteva andare avanti così. Per fortuna le cose cambiarono nel 1962, quando fu aperto al traffico il tratto Roma-Napoli dell’Autostrada del Sole. Fu individuata una striscia d’asfalto di diversi chilometri che poteva prestarsi per il test di velocità. Con la “complicità” silenziosa dei gestori dell’autostrada, fu misurata una base di due chilometri e furono tracciate le strisce bianche trasversali che dovevano essere rilevate dalle cellule fotoelettriche. Purtroppo il tratto non era perfettamente in piano ed era spesso battuto dal vento: due difetti che sarebbero stati almeno in parte corretti effettuando passaggi nei due sensi di marcia. La velocità massima sarebbe stata la media matematica dei passaggi migliori.

C’era un uomo, all’Isam, di cui un po’ mi ricordo. Si chiamava Schettino, era di Napoli. Mi chiedevo che ci facesse quel tecnico minuto e gentile, sempre chino col saldatore in mano su un circuito elettrico, in mezzo a quei ciociari caciaroni e ridanciani, ma incredibilmente efficienti e appassionati del loro lavoro. Ci faceva eccome: tutte le apparecchiature di rilevazione erano firmate da lui, da Schettino. Che le perfezionava in continuazione per renderle più affidabili e più facili da gestire. Non solo: Schettino aveva allestito un furgone Romeo a tetto rialzato come centro prove mobile, a cui in seguito fu affiancato un furgone più grande e moderno: i dati rilevati durante i test venivano trasmessi via radio a un apparecchio che, a bordo del furgone, registrava tutto su un nastro cartaceo: roba che neppure la Nasa…

Lo stesso dicasi per le cellule fotoelettriche, che oggi sono normale amministrazione, per esempio nel funzionamento dei cancelli o delle porte automatiche di un ascensore. Ma sessant’anni fa neppure le case automobilistiche disponevano, come l’Isam, di fotocellule che al passaggio su una striscia bianca facevano scattare un cronometro elettronico per la misurazione dei tempi.

Prima di ogni test, la vettura doveva essere “strumentata”, operazione a volte complessa. Per la velocità massima e l’accelerazione, per esempio, veniva installata una fotocellula sul paraurti anteriore. Per il test di consumo, su cui val la pena di soffermarsi, si doveva piazzare a bordo della vettura un apparecchio che conteneva un’ampolla di benzina. Attraverso un sistema a controllo elettronico, al passaggio sui sensori si interrompeva il flusso di benzina del serbatoio di serie e si attivava, per tutta la lunghezza del percorso di prova, il flusso di benzina dell’ampolla. La misurazione della benzina consumata avveniva semplicemente con la pesata dell’ampolla su una bilancia di precisione.

Dopo ogni passaggio, per esempio a 60, 80, 100 all’ora di tachimetro, si rilevava la velocità effettiva, si pesava la benzina, si stabiliva il consumo, si fissava un punto sulla carta millimetrata. Tre punti bastavano per tracciare una curva, che doveva avere un andamento coerente. In caso contrario, voleva dire che c’era stato un errore, perciò si doveva rifare tutto. Dopodiché si procedeva con altre misurazioni, a 50, a 120 o a velocità intermedie, per fissare altri punti sul foglio millimetrato, in modo da perfezionare la curva. Insomma un lavoro di pazienza e precisione, condotto da un’equipe di quattro o cinque uomini, che ho voluto descrivere, seppure in modo sommario, per dare un’idea dell’impegno e del costo di uno dei tanti test che corredavano le prove su strada.

                         

Nessun’altra rivista al mondo era in grado di fare altrettanto. Quattroruote si era guadagnata in poco tempo la considerazione e il rispetto di tutte le case automobilistiche. E, detto tra noi, pure delle riviste concorrenti, che spesso, nei loro articoli, prendevano come riferimento i dati pubblicati da Quattroruote.

Io stesso mi trovai a farlo, con poca eleganza, quando nel 1979 lasciai Quattroruote. Ero giovane, volevo allargare i miei orizzonti, passai a Gente Motori e poi ad altre testate (ma alla fine tornai a Quattroruote con incarichi di maggiore responsabilità). Ebbene, i dati delle “prove” di Gente Motori erano spesso gli stessi di Quattroruote, solo un po’ ritoccati…

In un altro racconto della serie “C’era una volta Quattroruote“, uno dei primi pubblicati da LetterMagazine, ho parlato del test di maneggevolezza che si svolgeva sulla salita del Tuscolo, presso Roma. In quell’occasione ho ricordato Massimo Natili (1935-2017): era lui il pilota della “prova in salita”. Su quella stradaccia aperta al traffico, Natili, che fosse alla guida di una 500 o di un’Alfa Romeo 2600 Sprint, era bravissimo. Come pilota non aveva scalato le vette delle massime categorie perché non era stato aiutato dalla fortuna. Se non imbrocchi il momento giusto, la macchina giusta, lo sponsor che crede in te e ti sostiene, puoi essere bravo finché vuoi ma non fai carriera. Nel caso di Natili, c’era stato pure un incidente a Monza che l’aveva tenuto per un po’ lontano dalle gare Junior.

Ma io lo ricordo anche per altre doti: la simpatia e la modestia. Mi vide guidare e mi dette un consiglio da fratello maggiore: “Vuoi fare il pilota? Lascia perdere, non hai la stoffa. Te la cavi bene, sei veloce, ma ti emozioni, e se ti emozioni succede che poi perdi la testa.” Aveva ragione. 

Mi raccontò Natili che l’ingegner Moscarini, giovane ufficiale di complemento in un reparto motorizzato dell’Esercito, ebbe un incidente mentre ispezionava un autocarro. Un meccanico distratto abbassò il cric e Moscarini ci rimase sotto. Sembrava spacciato, invece si rialzò e imprecò contro quell’imbecille, poi andò all’ospedale, dove gli sostituirono un pezzo di cranio con una calotta metallica e lo salvarono. Insomma, un tipo tosto, oltre che competente in campo motoristico.

                   

I test li faceva lui, Moscarini: le foto pubblicate da Quattroruote lo mostrano spesso al volante, con l’immancabile berretto in testa. Per il test della velocità massima, sul sedile accanto prendeva posto un tecnico, col compito di controllare il regolare funzionamento dell’apparecchiatura e di leggere il contasecondi elettronico: un ruolo poco gradito… Moscarini si metteva in corsia di sorpasso, lanciava la macchina a tavoletta, affrontava il tratto misurato in piena velocità, sperando che per almeno due chilometri nessuno lo costringesse a frenare. Macché, capitava spesso il “fijo de ‘na mignotta” che usciva in sorpasso a 110 e costringeva Moscarini a togliere gas. Dunque tutto da rifare.

Ma Moscarini ci provava sempre a passare, teneva giù il gas fino all’ultimo: “Dai che rientra, dai che ci lascia strada, spostati, spostati…” Erano momenti di tensione che Moscarini scaricava sulla gamba del compagno: più si avvicinava al sedere della macchina davanti, più gli stritolava la gamba con la sua manona forte come una tenaglia, mentre quello l’implorava, considerate le circostanze, di tenere entrambe le mani sul volante. Inutilmente.

Alle 14, cascasse il mondo, andavano tutti a pranzo: penne all’arrabbiata, bucatini, melanzane alla parmigiana, carciofi in tutti i modi: fritti, alla giudea, in pinzimonio, alla romana; abbacchio; maialino al forno, costine. Si levava una voce: “Portace quelle bufale che dai solo agli amici”; e un altro: “Oggi ce l’hai le olive all’ascolana?”.

Ciò che non mancava mai era il peperoncino. Se eri un nuovo ospite, c’era sempre qualcuno che allungava il braccio sul tuo piatto e ti scaricava una grandinata di peperoncino sui maccheroni. Un collaboratore di Moscarini il peperoncino forte, la famosa Sigaretta Calabrese, se lo portava da casa. Uno scherzo ricorrente, riservato agli ospiti, preferibilmente stranieri, consisteva nello strofinare di peperoncino il bordo del bicchiere e vedere poi le smorfie del malcapitato. Accadde una volta che un ospite di riguardo, capo dell’ufficio stampa di una importante casa automobilistica tedesca, dopo aver frantumato con le dita il peperoncino sulle tagliatelle, fosse andato in bagno a orinare. L’operazione richiese naturalmente l’estrazione manuale dello “strumento”, che a contatto con le dita impregnate di peperoncino s’infiammò come un cerino. Tutti udirono i lamenti del poveretto…

Ero ad Anagni quando l’Isam fece la prova della nuova Alfa Romeo 1750 berlina. La ricordo bene perché in quell’occasione conobbi Guido Moroni (1924-2014), storico collaudatore dell’Alfa Romeo: senza il suo imprimatur, nessuna Alfa poteva essere messa in produzione. Moroni, milanese, un diploma di perito industriale (quando l’Iti era una scuola seria) era entrato all’Alfa Romeo, reparto corse, nel 1938 come disegnatore. Ma sapeva anche guidare: Consalvo Sanesi, pilota e collaudatore Alfa Romeo, lo prese con sé, lo tirò su e lo designò suo successore.

Di Moroni avevo sentito parlare. Il mio caposervizio Mastrostefano, alfista praticante, raccontava che quando si trattava di provare e confrontare vari tipi di gomme, non occorreva dire a Moroni di che marca e tipo fossero: a lui bastava fare qualche giro sulla pista di Balocco per identificarle con nome, cognome e misura.

A me sembrò subito strano che si scomodasse un Moroni per consegnare un’automobile all’Isam. Ma ci misi poco a capire che Moroni non era venuto solo per quello: era venuto per restare, osservare e magari anche qualcosa di più. Del resto c’era stato un precedente che suggeriva all’Alfa Romeo la presenza di un loro uomo: 1962, prova su strada della Giulia ti, test della clotoide, una curva micidiale sempre più  stretta, Giulia in appoggio sulla ruota anteriore esterna: la porta lato guida scattò come una molla e si spalancò. Moscarini, che era alla guida, dovette aggrapparsi al volante per non volare fuori. In via riservata Quattroruote segnalò l’accaduto alla casa costruttrice: in quattro e quattr’otto l’Alfa Romeo apportò le necessarie modifiche alla scocca e la rese più rigida.

Torniamo alla 1750. Il clima era amichevole, Moroni dava del tu a tutti e i ragazzi dell’Isam si sentivano gratificati dalla sua confidenza. Uno di loro gli chiese perfino l’autografo dietro una foto della Giulia TZ… Fatti i test di stabilità a Ciampino, era previsto quello della velocità. Moroni salì sulla 1750 e sparì: disse che doveva cercare una farmacia, che sarebbe tornato la mattina seguente alle 6 in punto. Che cosa fece in tutto quel tempo? Ufficialmente comprò l’Aspirina. Ma forse qualche medicina l’aveva somministrata anche alla 1750… Per esempio una generosa dose di aria compressa nelle gomme per ridurne l’attrito, magari anche un abbassamento dei livelli olio motore, cambio, differenziale; forse un ritocco all’anticipo: fatto sta che sulla pagella di Quattroruote la 1750 prese un bel 30.

 

In copertina: Foto Archivio Ruoteclassiche
Il capo collaudatore dell’Alfa Romeo Guido Moroni al volante della monoposto 159 Alfetta di Formula 1, che vinse il Campionato Piloti nel 1950 e nel 1951.

 

 

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